Articoli su Giovanni Papini

2012


Rosy Cupo

Lettere ritrovate e carteggi incrociati: Ungaretti, Papini e Marone (1916-1918)

Pubblicato in: Rivista di studi italiani, anno XXX, n. 2, pp. 100-121
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Data: dicembre 2012



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Nel campo della filologia e dell’ermeneutica testuale di straordinario interesse si rivelano, quando sopravvissute, le testimonianze coeve alla produzione dell’opera in esame; oltre che fondamentali, ad esempio, nella ricostruzione delle fasi redazionali, soltanto attraverso esse ci è consentito di riascoltare la voce diretta e autentica dell’autore. Nel caso di Giuseppe Ungaretti, addirittura imprescindibili sono gli epistolari intrattenuti con alcuni amici, spesso personaggi rilevanti nel panorama intellettuale dell’epoca: primo fra tutti Giovanni Papini, e poi Ardengo Soffici, Giuseppe Prezzolini, Carlo Carrà, Gherardo Marone 1. Questi materiali, vere e proprie miniere di informazioni, si rivelano ancora densi di inedite prospettive, fin qui trascurate per motivi banali; innanzitutto le lettere sono state ordinate e pubblicate in tempi diversi, per cui gli studiosi non hanno potuto avvalersi del confronto reciproco e di una proficua lettura sinottica. Il carteggio con Papini, ad esempio, senza dubbio il più importante e corposo, specchio dei pensieri e delle intenzioni del giovane Ungaretti, caratterizzato tra l’altro da un tessuto uniforme almeno per il periodo dal 1915 al 1920, e a noi giunto quasi senza lacune, è stato edito soltanto nel 1988, successivamente quindi a quelli con Soffici, Carrà e Marone, pubblicati rispettivamente nel ’81, nel ’80 e nel ’78: ciò ha causato, in alcuni casi, difficoltà e imprecisioni, se non inesattezze,


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nella datazione di testimoni e nella ricostruzione di episodi. A ciò si aggiungano le grosse lacune cronologiche purtroppo esistenti tra i documenti sopravvissuti, che molto hanno inciso sulla corretta interpretazione degli stessi, come nel caso della corrispondenza con Gherardo Marone, direttore della rivista napoletana La Diana, cui il poeta ancora giovane aveva collaborato. Come avvertiva infatti Leone Piccioni nella premessa 2 le Lettere dal fronte a Gherardo Marone, oltre a essere state pubblicate in data precedente a quelle inviate a Papini, di cui, come si vedrà, costituiscono il naturale contrappunto, si presentavano mutile di larghi gruppi di lettere, andati perduti. Per nostra fortuna, alcune di queste lacune sono state in seguito colmate, grazie a inattesi ritrovamenti. Una sezione dispersa del carteggio tra Ungaretti e Gherardo Marone è stata riconosciuta casualmente sui banchi del mercatino antiquario di Porta Portese, a Roma; edita a cura di Francesca Bernardini Napoletano 3, si è successivamente incrementata di ulteriori testimonianze, grazie ad una ricerca commissionata al medesimo venditore, che ha condotto alla ricostituzione quasi completa dell’importantissimo carteggio 4, di cui oggi si reclama una nuova edizione che riunisca, a maggior vantaggio degli studiosi, un materiale sparso tra diverse sedi 5. Purtroppo non siamo in possesso che di una metà dello scambio epistolare, quella cioè rappresentata dalle lettere di Ungaretti, sia nel caso di Papini che di Marone; Ungaretti, infatti, per le vicissitudini della sua vita materiale (nel periodo che qui ci interessa si trova al fronte, in prima linea) non ha conservato nessuna delle lettere ricevute. Tuttavia, come si vedrà, spesso i contenuti sono talmente eloquenti da lasciar supporre con sufficiente approssimazione il senso della missiva che li aveva suscitati. Questo saggio si propone di riassemblare virtualmente questi documenti, e di “riattraversarli” criticamente, in modo da gettare nuova luce sui rapporti intercorsi tra Ungaretti e Marone, e al contempo sulle aspettative e sulla considerazione del mondo dell’arte e della letteratura del poeta dell’Allegria. La ricostruzione dell’amicizia e della collaborazione tra Marone e Ungaretti è certamente tra i temi che in misura superiore si avvantaggiano della procedura


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di confronto, grazie alla quale emergono dinamiche complesse, fino a oggi trascurate; persegue infatti una tesi di amicizia duratura e senza ombre l’interpretazione di Leone Piccioni, che ha redatto l’introduzione del volume già menzionato; mentre la curatrice delle “lettere ritrovate”, Francesca Bernardini Napoletano, si interessa maggiormente a questioni testuali, pur auspicando, come si è detto, una riedizione delle Lettere dal fronte a Gherardo Marone.
   Nel 1916 Ungaretti si trova al fronte ormai da parecchi mesi; l’anno precedente aveva conosciuto l’esordio poetico, con le liriche pubblicate su Lacerba e su La Critica Magistrale, che gli aveva consentito di farsi già un nome tra gli intellettuali italiani. Nel marzo di quell’anno il poeta riceve per posta una rivista di recente pubblicazione, La Diana 6, cui risponde subito ringraziando:

   Ho ricevuto la Diana. Mi date, quassù, un’ora di gentilezza 7.

Alla immediata richiesta di liriche per la pubblicazione avanzata dal giovane Gherardo Marone, responsabile della rivista, Ungaretti risponde:

   Caro Marone, grazie, ma non ho coraggio di mandare. [...] Ho deciso oggi, dopo aver molto pianto, quel terribile pianto che non si scioglie, che sempre più ti pietrifica dentro, di rimanere in silenzio 8.

Pochi giorni dopo, il 3 maggio, Ungaretti informa Papini dell’avvenuto “contatto”, con parole che appaiono singolarmente caute, e al contempo tradiscono il desiderio di approvazione da parte di Papini:

   Poco prima che si risalisse quassù […] Marone – non so nulla di lui; mi è parso garbato – mi ha invitato alla Diana. Gli ho subito risposto di no, spiegandogli questo mio stato d’animo che sai 9.


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L’amicizia tra Marone e Ungaretti procede, e il poeta si lascia conquistare dall’entusiasmo e dall’amore per l’arte che guidano le iniziative del giovane napoletano. Nonostante la decisione apparentemente ferma espressa nella lettera sopra riportata, Ungaretti tra il giugno del 1916 e il dicembre del medesimo anno, invia a Marone diversi componimenti. Quasi sempre nelle sue lettere si trovano anche precise richieste di non avviare a pubblicazione, riferite sia alle liriche, sia alle informazioni ivi contenute; tali raccomandazioni non sortiscono però l’effetto desiderato, visto che ben sei liriche furono pubblicate sulla Diana tra il maggio e il dicembre di quell’anno 10. Alla pubblicazione di Malinconia, espressamente vietata in una nota contenuta sullo stesso manoscritto (“Vi mando la mia Malinconia, per starle vicino, non per la pubblicazione”), il poeta risponde, un po’ laconico, il 14/8/16:

   [...] vi ringrazio della cortesia, non della pubblicazione: quella mia cosa ha un certo valore come “motivo” ma è tanto imperfetta, – titubante e quindi “prolissa” – come “espressione”: avrei dovuto risoffrirci prima (E poi, a che pro pubblicare?) 11

Si noti che, contrariamente alle proteste di impoverimento spirituale e di volontà di tacere comunicate a Marone, questo è un momento di densa produzione lirica:

   Sto lavorando al Porto sepolto. Ho letto a un mucchio di soldati la mia Campagna 12.

Nello stesso periodo maturava in Ungaretti l’idea di raccogliere le proprie poesie, “dieci copie manoscritte a dieci amici miei; con l’obbligo per loro e


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per me del segreto” 13. Ma l’iniziale ritrosia si ridimensionava, se a distanza di 15 giorni il poeta chiedeva a Marone il ‘preventivo’ relativo a un centinaio di copie:

   Caro Marone, mi potreste dire, voi che v’intendete di cose tipografiche il prezzo di un volume, formato della Diana, caratteri di questo corpo circa IL PORTO SEPOLTO, un centinaio di copie numerate, un migliaio di versi. Sarebbe la raccolta delle mie cose che vorrei distribuire agli amici. […] Potreste incaricarvi voi della stampa; qui, capirete, non s’ha modo; e vorrei uscirne subito 14.

È stata notata da molti l’incongruenza tra il “migliaio di versi” prospettato a Marone e il numero totale dei versi che effettivamente conterà Il porto sepolto (1916); non condivisibili tuttavia appaiono le conclusioni di Piccioni, cioè che si trattasse di “un ‘migliaio’ di versi creati dalla immaginazione, in una tendenza ad ampliare per immaginazione come Ungaretti ebbe fino alla morte” 15. Innanzitutto si evince bene dalle testimonianze come Ungaretti fosse sempre molto concreto e “impaziente sulle cose dell’arte”; inoltre, l’analisi dei dati a nostra disposizione sembra deporre fortemente verso un corposo ridimensionamento del materiale poetico, compiuto durante la revisione effettuata in vista della pubblicazione, e testimoniata dalle seguenti parole:

   Ultimamente ho ripreso tutte le mie cose del periodo di guerra, ne ho distrutte mezze, ho rifatto il resto, e ho richiuso, e mi pare che la mia vena abbia dato l’ultima goccia del mio sangue anemico, e si sia dolcemente stagnata 16.

La proposta non ebbe seguito, poiché la pubblicazione troverà una strada più facilmente percorribile; tra l’8 e il 30 aprile 1916 Ungaretti, mentre trascorreva un periodo di riposo a Versa, aveva incontrato “Serra, un ufficiale delicato” 17, che tanta parte avrà nella pubblicazione del Porto sepolto. È al nuovo amico, infatti, che, sicuramente contento di risolvere la questione con


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poco dispendio di forze e di denaro, decide di affidare il suo “tascapane” contenente le liriche del Porto sepolto; nel dicembre del medesimo anno, ecco uscire il Porto sepolto a Udine, a cura, appunto, di Ettore Serra:

   Si sta stampando, pare, a Udine, in 80 esemplari numerati. Un mio amico ha voluto raccogliere le cose del mio anno di guerra 18.

Ma la bella amicizia nascente non viene in alcun modo inficiata dal mancato attuarsi del progetto, e anzi Ungaretti sembra aver trovato un nuovo confidente, come appare dalla seguente, stupenda lettera inviata nell’agosto del 1916:

   Caro Marone, ti ringrazio dell’affetto che mi dai con tanta gentilezza; […] ho ore di orrore per me; per questa stupida vita che mi attornia; per gli uomini che non capiscono nulla […] e ripagano con presunzione umiliante quella purezza che qualche “poeta” si cava dall’anima e offre al sole, incorreggibile generoso verso il suo “prossimo”, il quale non vede né il sole né la poesia; ma, – quando vede un po’ – , la cricca, la fatuità, il successo, l’invidia, la pedanteria, e mill’altri convenzionalismi che in ogni tempo hanno regolato, come sai, la letteratura; la poesia è un’altra cosa: ha pudore. Caro Marone, sono pieno di schifo; vorrei non essere poeta; non possedere questa tormentosa sensibilità; vorrei essere un umile facchino; vorrei essere rozzo e semplice; avere una gran gioia a faticare, a mangiare, a riposare; essere un buon uomo fecondo; e avere il timor d’Iddio, quel tanto per non saperne molto e per fare una buona morte; ma sono un poeta, amico Marone, fratello Marone, sono un dolorante poeta; ma ho le mie rare felicità di dio, che mi ripiombano in nuove, più complicate, più atroci difficoltà d’anima 19.

Il concetto qui e altrove espresso del “pudore” della poesia, oltre che interpretare perfettamente il disgusto del poeta verso il successo editoriale e letterario e in generale verso tutte le miserie della “cricca” degli intellettuali, è anche una splendida immagine della concezione poetica dell’Allegria, del suo linguaggio scarno e sintetico, dell’importanza della parola “scavata” e “sussurrata”.
   Ungaretti diviene in seguito addirittura promotore dell’iniziativa napoletana, consigliando a Marone di spedire la rivista, dietro propria presentazione, ad alcuni personaggi influenti, tra cui Arturo Farinelli dell’Università di Torino,


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a Fortunat Strowski della Sorbonne di Parigi e all’“Association corporative des écrivains français”, la quale “riunisce gli scrittori francesi d’avanguardia – ed ha per iscopo di stringere legami cogli scrittori d’avanguardia degli altri paesi” 20.
   Pochi mesi dopo si verifica un episodio che vale la pena ricordare per le forti somiglianze con la vicenda della partecipazione alla Diana; Ungaretti riceve un invito a collaborare ad una rivista, che sta per avviare le pubblicazioni, da un tale Bruno, dalla Terzoli identificato con Antonio Bruno, anch’egli gravitante attorno al gruppo della Diana 21; Ungaretti lo comunica a Papini, tentando di giustificare la propria risposta affermativa, sostenendo di essere anche lui un giovane, sebbene non proprio alle prime armi, e avanzando un esplicito confronto con la Voce, che si attesta su ben altro livello, essendo una “rivista di selezione” 22.
   Dopo appena qualche giorno, Ungaretti informa Papini di aver mandato a Bruno I ritrovi, una lirica ad oggi dispersa, di cui si dichiara abbastanza soddisfatto, avendo in essa “rinvenuto i migliori motivi di Lacerba”; immediata la reazione di Papini, intuibile dalla risposta di Ungaretti:

   Caro Papini, ho scritto oggi a Bruno per riprendermi I ritrovi. Mi fanno oggi ribrezzo quelle mie storie; questa è la principale ragione. Poi, – come con tanto affetto mi consigli – è meglio che viva, almeno per ora, molto con me – / Poi si vedrà, se avrò una strada veramente 23.

E in una seconda cartolina immediatamente successiva:

   Marone ha molto cuore. Non voglio dirti che aderisco alla Diana, neanche per sogno; ci son troppi personaggi. Ma Marone non mi pare volgare. / Ti


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ho detto d’aver ritirato quella mia cosa e “Circo”? Per ora è meglio star silenziosi 24.

Per circa sei mesi Ungaretti non cita più Marone nelle proprie lettere a Papini, dimostrando di averne capito e condiviso le ragioni dell’intransigenza; ma nel novembre informa l’amico napoletano di poter ottenere un periodo di licenza da trascorrere proprio nella sua città; non altro che la prospettiva di poter incontrare di persona il gruppo di intellettuali e poeti facenti capo alla Diana lo fa propendere per tale destinazione:

   A Napoli vengo soprattutto – unicamente quasi – per riposarmi; forse penserò un poco a Leopardi, se mi sentirò forza; se no, e sarà il meglio, cercherò di dormire molto 25.

Il soggiorno napoletano, durante il quale sarà ospite a casa di Marone, cementa l’amicizia; il poeta lascia tra l’altro a Napoli alcune liriche, come dimostra la lettera del 18 gennaio ’17 26, in cui comunica varianti a una delle composizioni, Temporale, lasciando supporre che la pubblicazione di queste fosse già stata concordata. Ungaretti non esita a tentare nuovamente un avvicinamento di Papini ai suoi nuovi amici, come aveva promesso a Marone:

   Non ho incontrato Papini che è tornato in montagna; gli ho scritto subito con calore di te e della Diana; scrivigli anche te 27.

Tenendo fede alla parola data, il 3 gennaio, nei giorni cioè immediatamente successivi al rientro dal soggiorno napoletano, Ungaretti aveva inviato una lettera a Papini contenente un esplicito invito ad arginare la propria diffidenza verso la Diana:

   Ho incontrato a Napoli Marone, ed abbiamo parlato insieme; ho sentito con piacere, fra quei napoletani, che tu sei sempre, per i giovani, la forza attrattiva; ho sentito con piacere [...] questa viva adesione verso di te. / La Diana è ancora una cosa un po’ fatua, un po’ disordinata; ma Marone è un giovine – e alcuni altri con lui – che s’appassiona, un giovine di


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vocazione, ed ho piacere di doverti fare per loro la preghiera di non disdegnare di avvicinarli; forse nessuno di loro saprà mettersi / in luce; ma questo proseguire a creare in Italia un ambiente sempre più intelligente [...] merita la tua attenzione 28.

L’intento è palese: intimamente convinto della bontà dell’iniziativa maroniana, e desideroso di proporsi a sua volta come mentore, oltre che di sdebitarsi (“voglio bene a Marone che aiuterò di cuore, perché ha ingegno e perché m’ha usato infinite cortesie”) 29 Ungaretti sa che soltanto la guida di un intellettuale come Papini può conferire alla Diana quei caratteri di autorevolezza e di rigore che al momento non possiede. Durante il viaggio di ritorno si ferma a Firenze, per un incontro con Papini, che non ha luogo, come si è visto; ma la risposta di Papini su tale questione, che aveva forse tardato a giungergli, arriva, e un contestuale irrigidimento si nota nelle parole di Ungaretti:

   Non ho stima né disistima di Marone; mi ha sequestrato a Napoli, mi ha talmente adulato; mi ha dimostrato di avere una certa passione che potrebbe dar seme e frutta; ha dei progetti fatui; fa una rivista fatua; queste cose gliele ho dette; ma è giovine; ma consigliato bene e aiutato potrebbe mettersi a cercare, e trovare la sua forza; io gli voglio bene 30.

Irrigidimento evidente nella seguente lettera, scritta mentre è ancora in viaggio, quindi prima del 26 gennaio, in cui Ungaretti svela la natura del progetto al quale aveva destinato le liriche lasciate a Marone, la futura “Antologia della Diana” 31:

   Ho pensato molto all’Antologia; sentimi; chi vuoi che ci presti attenzione in questo momento? E poi chi vorresti presentare; quali sono tra i nuovi quelli che hanno fatto qualcosa di veramente significativo? […] io non sono più un giovanissimo, bisogna essere idiota per contar gli uomini in rapporto al momento in cui hanno prodotto per il pubblico; se la critica è anche ufficio dell’anagrafe, la critica di quel critico mi fa vomitare; il più grosso dispiacere – nausea! – è d’essere confuso con qualche scimmietta


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pretenziosa, genere De Pisis Ravegnani e compagni; bisogna essere idioti per avvilirmi così; io non ci starei. / Sono stato franco; pensaci un po’; e scrivimi; la “Diana” diverrà un centro di primordine, vedrai; […] ti raccomando di non aver fretta; t’infliggo il timore della fatuità; è la penitenza d’avermi conosciuto; ma sarà il tuo bene; non ho l’abitudine di confidarmi che a quelli che amo e stimo; nessun altro senso può avere questa lettera. Un anno dopo la pace penseremo utilmente all’antologia 32.

Il contenuto di tale missiva è quantomeno bizzarro; il poeta, dopo aver approvato il progetto al punto da selezionare e lasciare le liriche ad esso destinate, avrebbe iniziato, durante il viaggio di ritorno, a riflettere sulla natura e i limiti dell’iniziativa al punto da rimetterne in discussione l’impianto e la propria stessa partecipazione. Anche la motivazione addotta della propria inadeguatezza a farvi parte, cioè l’età anagrafica, appare poco fondata, e lo stesso poeta la esprime con qualche incertezza. Si noti inoltre il tono generale del discorso, oscillante tra espressioni forti e lusinghe sia di natura personale che artistica; infine, la pubblicazione è rinviata a una data indeterminata: addirittura un anno “dopo” la pace, la quale non poteva certo considerarsi imminente. Si rammenti inoltre che in quegli stessi giorni un fattore di non secondaria importanza era intervenuto a mutare la posizione di Ungaretti nel panorama poetico: la pubblicazione del Porto sepolto.
   Commentando questa lettera Armando Marone scrive: “Ungaretti […] si dimostra scettico. Dopo, però, come si vedrà, ne sarà entusiasta”; le quattro lettere ritrovate successivamente, che intercorrono tra quest’ultima e l’effettiva pubblicazione della rivista, dimostrano invece il contrario: dopo aver tentato con le buone, Ungaretti abbandona le lusinghe e adotta un tono che è poco definire perentorio, in una cartolina del 23 gennaio:

   Caro Marone, non intendo figurare nell’Antologia; rimandami quelle poesie che voglio riguardare prima della pubblicazione 33.

Con una altrettanto significativa doppia sottolineatura delle espressioni qui riportate in corsivo, a ribadire l’inamovibilità della decisione. E al solito sente la necessità di rassicurare Papini:

   Carissimo Papini, mi ritiro dalla Diana; ho chiesto di riavere gli scritti lasciati loro a Napoli per l’Antologia che ora faranno. Faccio questo taglio


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con dolore perché voglio bene a Marone; e spero sinceramente che in avvenire faccia meglio. [...] Ho tentato inutilmente di fargli mutar rotta subito per rimanere con lui; mi ha risposto con una tempesta di lodi sulla mia poesia insuperabile; e io me ne vado [...] perché io credo che il poeta sia uomo di profondo pudore 34.

In una lettera di pochi giorni dopo, Ungaretti tenta nuovamente di ridimensionare l’accaduto spiegando all’amico Gherardo di non voler più pubblicare nulla fino alla fine della guerra:

   […] se Ungaretti, dicendoti delle parole aspre, ti farà fare una Diana pura, come l’aveva sognata, Ungaretti avrà parlato, anche, e meglio, a uno che dovrebbe essere tra i migliori. […] Ti continuo a scrivere per dimostrarti che cessando di collaborare alla tua e a qualunque rivista, fino alla fine della guerra, non cesso di volerti bene e di sperare per te bene. Non sono né un vanitoso né un pettegolo; sono un vero amico 35.

Il rifiuto di pubblicare, decisione accorata e difficile, più volte espresso (ma in taluni casi rinnegato) rappresenta un motivo costante nelle lettere di quegli anni, a spiegare il quale interviene lo stesso Ungaretti in una lettera a Prezzolini risalente a due anni prima:

   Son qui, eccomi a Milano. Girottolo avviluppato di nebbia. [...] Sono strani i miei discorsi. Sono un estraneo. Dappertutto. Mi distruggerò al fuoco della mia desolazione? E se la guerra mi consacrasse italiano? Il medesimo entusiasmo, i medesimi rischi, il medesimo eroismo, la medesima vittoria. Per me, per il mio caso personale, la bontà della guerra. Per tutti gli italiani, finalmente una comune passione, una comune certezza, finalmente l’unità d’Italia 36.

Il poeta era stato richiamato alle armi in un momento particolarmente delicato della propria esistenza, in cui il senso di estraneità e di sradicamento stava per sopraffarlo. Affascinante gli era apparsa dunque la guerra, come


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possibilità di riscatto personale: riconoscersi in una causa, rivestirsi di un’uniforme di chiara appartenenza e in nome di quella combattere per un ideale riconosciuto comune e superiore, sembrava garantire il dissolversi delle proprie inquietudini. Collima perfettamente con quanto detto la volontà di rimanere soldato semplice, di fronte alla possibilità di diventare ufficiale, strenuamente perseguita dal poeta in tutti e quattro gli anni di guerra, giustificata dall’imperativo di annullare la propria identità in un sentimento di totale abnegazione; lo disgustava il pensiero di distinguersi dalla massa del popolo italiano:

   [...] non avevo voluto la guerra e non partecipavo alla guerra per riscuotere applausi, avevo, ed ho oggi ancora, un rispetto tale d’un così grande sacrifizio com’è la guerra per un popolo, che ogni atto di vanità in simili circostanze mi sarebbe sembrato una profanazione [...] m’ero fatto un’idea così rigorosa, e forse assurda, dell’anonimato in una guerra destinata a concludersi, nelle mie speranze, colla vittoria del popolo, che qualsiasi cosa m’avesse minimamente distinto da un altro fante, mi sarebbe sembrata un odioso privilegio 37.

Se questa dinamica appare chiara, resta l’impressione che le ricuse più volte inferte a Marone siano dettate da qualcos’altro, e che il poeta celi, dietro la volontà di rimanere in silenzio, anche la diffidenza e il timore di compromettersi con una rivista considerata, sebbene guidata dalle più pure intenzioni, addirittura ‘scolastica’ e ancora troppo acerba per inserirsi senza pericolo di ludibrio nel panorama letterario internazionale 38.
   Si fa strada inoltre il dubbio che dietro tale repentino mutamento di opinione in merito all’iniziativa editoriale di Marone ci sia un preciso intervento dell’unico vero mentore che Ungaretti riconosce: Giovanni Papini. La lettura incrociata delle lettere a Marone e a Papini, come preannunciato, svela i retroscena delle contraddizioni e dei comportamenti apparentemente incongruenti di Ungaretti. L’ipotesi fu del resto avanzata dallo stesso Marone; in messaggio del 4 febbraio si leggono chiaramente le accuse che Marone aveva insinuato:


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   Mio caro Gherardo, […] ho qui la tua lettera tutto tormento, e non so da parte voltarmi. / Ti risponderò; intanto, credimi, non ho parlato per cattiveria o per suggerimento (non mi farai l’affronto di questa supposizione); ma per amore e per disgusto; forse ho avuto torto a tuo riguardo; lasciami un po’ soffrire con te; ora non saprei dir nulla 39.

Nel poeta sorge dunque il dubbio di essersi lasciato trasportare nell’accogliere senza riserve e a dispetto delle proprie convinzioni il suggerimento di Papini; chiede tempo per riflettere, e forse proprio da tale riflessione scaturirà la nuova promessa di partecipare all’“Antologia della Diana”, ritornando sulla decisione già presa. Ad ogni modo, Gherardo non serba rancore, e in un giro di posta la pace è fatta:

   Caro Marone, Ricevo la tua cartolina. Sono contento che tu m’ami. Che la tua rivista abbia un nucleo luminoso; un suo carattere, cioè; un suo indirizzo; in questo senso io ammetto l’adesione (1) dei “grandi spiriti”; e poi procedi franco.

   (1) Meglio avrei detto: l’adesione ai grandi spiriti; volerli con sé perché si trovano in una stessa corrente; perché dicono più intensamente di noi quello che ci tormenta
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A ciò segue un nuovo tentativo di perorare la causa della promettente gioventù napoletana:

Marone ha continuato a scrivermi; l’ho maltrattato – e mi aveva usato infinite cortesie – perché dubitavo della sua indole; oggi posso dirti che non è volgare; l’ho guardato bene nell’anima; è inesperto; ha una grande impazienza di arrivare; ma ha una qualità rara: è un buon ragazzo, veramente buono. Se puoi aiutarlo, aiutalo 41.


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   Il più ampio ventaglio di testimonianze ci permette in conclusione di avanzare l’ipotesi che Ungaretti, in cuor suo portato ad apprezzare l’iniziativa e le velleità di Marone, sia stato apertamente invitato dallo stesso Papini a evitare di compromettersi con la sua rivista.
   Il giudizio di Papini è motivo di tale ansia, come si è visto, da spingere il poeta a minimizzare e ridimensionare programmaticamente, nelle proprie lettere, anche il rapporto personale con Marone; scrive ad esempio di averlo “incontrato” a Napoli, e di esserne stato addirittura “rapito”, trascurando di riferire di essere stato ospite in casa sua per tutta la durata della licenza del Natale del 1916. Non manca di elogiarne le buone intenzioni, ma sono senz’altro più numerosi i luoghi in cui si affanna a giustificare il proprio coinvolgimento in una rivista di nuova nascita e di ben poca importanza:

   avrai veduto l’ultima Diana; nei giudizi a riguardo dei francesi io non c’entro; sono un po’ troppo stonati 42.

Dei fondatori della Diana il poeta apprezza l’esuberanza e la forza vitale che pur rendendo la loro iniziativa importante, tuttavia deve digrossarsi e raffinarsi:

   Ho avuto l’ultima Diana; non so che dirti di me; a riguardo dei francesi le note son un po’ stonate; e Longo dove l’hai pescato per guastarmi un amabile motivo del mio Cestaro? / Una cosa sola: vorrei esserti vicino; so quello che manca alla tua rivista; non saprei spiegarmi; certo così non aderisce ancora a una “cosa necessaria” 43.

All’aprile del 1917 risale una missiva che fu redatta due volte: identico gran parte del contenuto, fu inviata sia a Marone che a Papini, secondo un uso abituale; al primo scrive:

   Ho scritto oggi a Papini “ho pensato oggi molto a Marone, per avere una posizione netta a suo riguardo; vivo qui e non può non prendermi il rimorso d’aver pubblicato, e spesso vorrei potermi spezzare il cuore e coprire, come un cadavere, la poesia; non credo che pubblicherò altro prima che termini la guerra; – e mi pare d’esser giusto considerando che fa capo a lui un movimento pieno di giovinezza, – e quindi anche di difetti, – il quale non dovrà dispiacere a te che sei stato il precursore e oggi sei il


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genio di una gioventù appassionata, curiosa e innovatrice....” 44.

Ma si prosegua a leggere il testo nella ‘versione integrale’ inviata a Papini, e si noti con quanto impaccio Ungaretti tenti di mettere fine alle ingerenze di questo nel suo rapporto con Marone, pur avendo cessato la collaborazione nel gennaio 1917:

   [...] curiosa e innovatrice. Sento che si ripuliranno; e saranno degni della migliore Italia che ti sta nel cuore e nello spirito. Ho detto queste parole di giustizia, per uno scrupolo di coscienza; ma faccio punto definitivo al caso Marone nelle mie lettere a te, perché è meglio, mi fa meglio stare soltanto con te, quando ti scrivo 45.

In modo inaspettato, nello stesso mese ecco Ungaretti discutere con Marone della struttura che l’“Antologia” dovrà assumere:

   In quanto ai gruppi dell’antologia, te ne scriverò a lungo; ma mi pare che siano fuori posto Jahier, Sbarbaro, Moretti, Rebora, Galdieri (Paolo Argira vicino a Di Giacomo sta benissimo); ma non so come si potrebbero distribuire diversamente. Se Papini collaborasse, – e un’antologia della nostra poesia moderna senza di lui è un assurdo, – Rebora potrebbe andare nel suo gruppo; ma la cosa meno arbitraria sarebbe quella di adottare l’ordine alfabetico generale; così, con i gruppi, ti procureresti soltanto dei nemici 46.

La speranza, nutrita fin dall’inizio, di un avvicinamento e di una collaborazione tra Papini e la Diana, ormai vacilla; e Ungaretti teme che senza la presenza di un personaggio come Papini, a cui unanimemente si attribuiva all’epoca la funzione di guida e di ‘maestro’, la rivista non possa acquisire un carattere di “necessità”. Che l’opinione del poeta nei confronti dell’“Antologia della Diana” non fosse sostanzialmente mutata, e che non si caratterizzasse affatto come un’adesione entusiastica, è confermato da una successiva lettera, in cui si legge come Ungaretti fosse, piuttosto, esasperato:


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   La pietra dello scandalo è l’antologia che non è, come quella futurista, quella d’un gruppo particolare; che non è quella della poesia contemporanea nostra perché vi manca Papini, e vi mancano Palazzeschi, Carrà, Cardarelli, Bastianelli ecc.; che non è neanche l’antologia della Diana; ma giacchè ti ci sei messo e compromesso, tira avanti, ormai, e cerca che ti riesca alla meno peggio 47.

Tuttavia, il poeta inaugura una corposa sezione della corrispondenza con Marone con lo scopo di apportare correzioni alle liriche destinate all’“Antologia”, esprimendo al contempo impazienza a causa dei ritardi nell’invio delle bozze:

   Mi dispiacerebbe moltissimo – dopo le tue precise promesse – non aver visto prima della pubblicazione l’Antologia 48.

Su tale rivista, pubblicata nel 1918, appariranno ben quindici liriche ungarettiane. Anche in questo caso la lettura della corrispondenza già edita, incrociata e confrontata con le lettere “ritrovate”, permette di ricostruire in maniera meno approssimativa la vicenda editoriale dell’“Antologia della Diana” e le fasi redazionali che si succedettero, rispondendo a molti dei quesiti che Piccioni doveva lasciare insoluti a causa dei documenti allora mancanti:

   Nella lettera del 30 aprile del ’17, inviando La filosofia del poeta [...] precisa “la prima poesia va cambiata in questo modo”. [...] Aveva dunque già inviato tutte le poesie? In una lettera successiva [...] ecco un ‘Appena potrò, ti manderò quanto ti ho promesso’ [...] Dovrebbe riferirsi al gruppo più ampio, non poteva certo disporre, con un intervallo così breve, di altro materiale 49.

Come si è visto, le liriche erano state lasciate a Marone durante il soggiorno napoletano; ma dopo il ripensamento che lo aveva indotto ad acconsentire nuovamente, Ungaretti decide di inviare un nuovo manoscritto:

   Ti ho mandato stamani raccomandate “Il ciclo delle 24 ore”. Mandamene le bozze insieme a quelle di ‘Moscardino’; temo infinitamente gli errori di


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stampa. Accusami d’aver ricevuto 50.

Appare quindi ovvio che il poeta, in entrambe le seguenti cartoline, inviate nello stesso giorno, si riferisca a La filosofia del poeta come la “prima poesia”, apportando ad essa alcune varianti (relative alla seconda strofa): c’è nella prima poesia una strofa da mutare così

   E ogni volta
   ne fa dono
   profuso
   in splendenti
   nimbi squillanti
   a chi vuole
   e subito riprende
   ….
51

Ma la riflessione poetica non si conclude, e Ungaretti, sempre nel medesimo 30 aprile, comunica una terza soluzione:

La prima poesia va cambiata in questo modo:

   LA FILOSOFIA DEL POETA

   E subito riprende
   il viaggio
   come dopo il naufragio
   un superstite
   lupo di mare

questa è l’edizione definitiva; tutto il resto era superfluo; è abolito. Siamo d’accordo? Per intenderci mi dirai, ho ricevuto la 3a edizione della 1a poesia
52.

Inoltre, consapevole dell’importanza della variante, che dalla suddetta lirica faceva finalmente scaturire la stupenda, futura Allegria di naufragi, e forse preoccupato dal fatto di saperne ben quattro versioni differenti in mano a Marone (la prima, lasciata durante il soggiorno a Napoli, la seconda inviata per posta, la terza e la quarta rappresentate dalle varianti comunicate nelle


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cartoline) invia una ulteriore cartolina:

   ti confermo che l’edizione definitiva (la 3a e ultima) della 1a poesia è questa: […] 53.

Diviene pertanto possibile aggiungere alcuni particolari alla ricostruzione della storia redazionale di una delle più belle liriche di Giuseppe Ungaretti, Allegria di naufragi 54, appunto, la cui evoluzione si rappresenta, nelle sue fasi fondamentali e soltanto fino alla data della pubblicazione dell’“Antologia della Diana”, nella tabella sottostante:


Giovanni Papini 55    La filosofia del poeta 56    La filosofia del poeta 57    La filosofia del poeta 58
Conosco un amico
che libera dal turbine
del cuore
sfavillanti attimi
come di mattini
primaverili
e subito riprende
il viaggio
come dopo un naufragio
un superstite
lupo di mare

   So
   di un italiano
   che si dilania
   da tanti anni
   a liberare
   dal turbine
   del suo cuore
   il succo
   immortale
   degli attimi

   E subito riprende
   il viaggio
   come
   dopo il naufragio
   un superstite
   lupo di mare

   Versa il 14 febbraio 1917
   So
   di un italiano
   che si dilania
   da tanti anni
   a liberare
   dal turbine
   del suo cuore
   il succo
   immortale
   degli attimi

   E ogni volta
   ne fa dono
   profuso
   in splendenti
   nimbi squillanti
   a chi vuole
   e subito riprende
   il viaggio
   come
   dopo il naufragio
   un superstite
   lupo di mare

   Versa il 14 febbraio 1917
   E subito riprende
   il viaggio
   come
   dopo il naufragio
   un superstite
   lupo di mare

   Versa il 14 febbraio 1917


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Quando uscirà l’“Antologia della Diana”, il poeta ne sarà entusiasta, definendo Il ciclo delle 24 ore “la mia cosa che amo di più” 59.

È certo che la collaborazione infine ottenuta dello stesso Papini, che vi figurava con quattro liriche, avesse aggiunto non poco alla soddisfazione personale di Ungaretti, che di certo intervenne con pressioni e insistenze perché acconsentisse 60. E di nuovo, sulla scia dell’entusiasmo provocato dalla inattesa riuscita di un progetto tanto discusso, nelle lettere a Papini riflette per iscritto esprimendo dubbi ma anche suggerendo la possibilità di cooptare Marone in una iniziativa più seria:

   Veramente Marone è il solo che ogni tanto si ricordi di venirmi incontro tra la gente d’Italia – a parte te – perdonami di portarti così vicino a Marone, – sulla carta, nel cuore hai un altro posto – e mi alletta con progetti, con fanfaronate, e io, che sono così distaccato; mi metto in grandi impazienze, perché lo stimo sincero, di rimettermi a gridare tra gli uomini. / Ma ci si è talmente abituati alla guerra. / Per il dopoguerra, veramente, si potrebbe lavorare a qualcosa. Far nascere una rivista, dar corpo a idee, un qualche cosa nel quale culminasse il movimento d’avanguardia [...]. In quanto a Marone è uomo nel quale può essere svegliato il gusto, e incanalata a modo la passione? E dispone di denari da buttare via, ed ha tanta voglia di gloria e tanta generosità? o si vuol fare un piedistallo per sé? [...] Sarei contento di avere Marone con noi se avesse propositi e mezzi seri; in primo luogo accettare d’essere diretto; in primo luogo io non vedo che te e Soffici in Italia come ispiratori di un movimento d’arte che possa farci onore. [...] in fondo non so neanch’io perché ti parlo di queste cose; forse, certo, la miglior cosa è di starsene a sé in una Bulciano di questa


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terra; se non si fosse anche piagati d’umanità 61.

In queste parole si coglie perfettamente lo stato d’animo del giovane Ungaretti, dibattuto tra l’intransigente mentore Papini e l’esuberante Marone, tra la cautela e il pieno coinvolgimento; e si noti anche la sottile critica rivolta nell’ultima riga a Papini, estraniatosi nella sua torre d’avorio di Bulciano: il poeta gli rimprovera infine apertamente la sua freddezza, il suo disinteresse nei confronti della “gioventù appassionata”, atteggiamento riprovevole per un organizzatore di cultura che deve necessariamente essere disposto a rischiare qualcosa:

   tu stai lungi dagli uomini, eppure te ne preoccupi; ma un po’ come dei pidocchi, il soldato che sta in trincea; inevitabilmente; ma con l’anima altrove; eppure si finisce col volere un po’ di bene anche a quei pidocchiellini 62.

Alcuni giorni dopo esponeva anche a Marone questo suo progetto, facendogli anzi delle proposte precise:

   Vorrei che ci riunissimo un giorno, in una città d’Italia, e si istituisse un banchetto annuale, come se ne fanno a Parigi. [...] C’è un uomo che dovrebbe essere il nostro “Principe”, che da vent’anni lavora a trarre dal cuore questa vena di miracolosa bellezza che l’Italia sola al mondo possiede. [...] Ho pensato anch’io a una grande rivista e a una casa di edizioni [...] Ma sarebbe delittuoso, nel caso, scindere le nostre forze; non si arriverebbe a nulla. Ti si potrà vedere in Italia, in Agosto, verso la fine, spero a Firenze? Ti dirò quali sono i miei progetti, e mi dirai i tuoi. [...]
Ogni audacia e ogni finezza
63.

In sostanza Ungaretti avrebbe volentieri preso con sé Marone in una nuova iniziativa, ma non era disposto ad aderire completamente ad un progetto interamente maroniano cui non partecipasse anche Papini come garante della riuscita. A riprova di ciò si noti come Ungaretti, nonostante sia stato alla fine convinto, o costretto 64, ad acconsentire alla presenza delle proprie liriche


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sull’“Antologia della Diana”, inizi un graduale allentamento dei rapporti editoriali, procrastinando o negando altre collaborazioni che Marone, infaticabile, continua a suggerire; prima fra tutte, la ripubblicazione del Porto sepolto, la cui prima proposta risale all’aprile del 1917, in seguito più volte rinnovata:

    Appena avrò un po’ di tempo ti ricopierò quello che ho fatto in questi tempi; ma per ora non mi sono ancora deciso alla pubblicazione. Anche Papini mi aveva chiesto di ristampare Il Porto dopo la guerra 65.

    Appena potrò, ti manderò quanto ti ho promesso; non pubblicherai, però, che quello che ti manderò, appena avrò un po’ di tempo 66.

    In quanto al mio Porto ne riparleremo in seguito; ora non ho l’animo a queste cose; sono infinitamente stanco 67.

A dispetto di ciò che Ungaretti riferisce a Marone circa l’interessamento di Papini a una nuova edizione del Porto sepolto, è lui a sollecitare più volte Papini in questo senso, e non viceversa 68. Tra il settembre e l’ottobre del 1918 Ungaretti acconsente alla proposta finalmente avanzata da Vallecchi. Le


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perplessità dall’autore sono tutte legate alla propria momentanea incapacità di dedicarsi alle cose poetiche, per deficienza di corpo e di spirito 69, come appare patente dalle successive lettere a Papini. Sicuramente l’editore Vallecchi, di ben altra fama, dava maggiori garanzie di prestigio e di risonanza. Significativa in tal proposito la seguente lettera in cui, come pare evidente, le richieste di Marone appaiono accantonate, se Ungaretti non ha neppure contemplato l’ipotesi di contattarlo, preferendo pensare ad una edizione privata:

    Per l’edizione del Porto scrivo a Vallecchi accettando. Non ho concesso nulla a nessuno; non ho notizie di Marone, che verso di me è stato sempre molto cortese e a cui voglio bene, da un anno. Pensavo a una mia edizione privata, e di questo avevo scritto a Serra, e solo a lui che s’era occupato della prima; ma perché la cosa richiedeva un lavoro che nelle mie condizioni di vita mi era impossibile fare, avevo finito col rinunciarci [...] preferisco accogliere l’offerta della Voce, tanto più che ti fa piacere e che essere stampati dalla Voce è sempre un onore. [...] Vallecchi mi prepari il contratto 70.

In realtà l’ultima lettera scambiata con Marone risaliva a solo pochi mesi e non ad un anno prima; né pare fossero venute meno le difficoltà, dovute alla situazione bellica, che ad Ungaretti erano servite allora da pretesto. Ma qualcosa nel rapporto tra i due si è infine spezzato: l’ultima lettera conservata di Ungaretti a Marone è datata 19/4/1918. È possibile che siano andate perdute delle altre lettere, come suppone Armando Marone; si consideri tuttavia che nei mesi che seguiranno, con l’avvicinarsi della fine del conflitto, Ungaretti sarà preso da forti preoccupazioni per il proprio futuro, e che il dopoguerra sarà ancora più duro di come lo aveva immaginato; non meraviglia, quindi, che da questo momento la frequenza degli scambi epistolari tra i due vada scemando, fino a interrompersi del tutto.


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